Scrittura16 agosto 2018

Orologi e mutande. Figuracce autobiografiche

Sono a scuola, in seconda elementare.
Sono una “brava bambina”, studiosa e obbediente.
Alla maestra piaccio molto e alle compagne non dispiaccio, benché sia una secchiona, perché aiuto, passo generosamente i compiti da copiare e, quando si tratta di scrivere cronache e temi in italiano, mi trasformo in una vera e propria macchina che sforna testi a profusione, ovviamente tutti diversi, avendo anche l’accortezza di inserire qualche piccolo refuso.
Fin da piccola sono un genio del male!

Stiamo imparando a leggere l’ora perché in seconda si fa la cresima e con la cresima – si sa – i padrini e le madrine ti regaleranno l’orologio e mica si può fare la figuraccia barbina di non saperlo leggere!

Per insegnarcelo la maestra ci fa allenare su un grande orologio a muro, tondo e giallastro. Lo ricordo nitidamente perché fu il mio incubo.
Ero una bambina iper miope, in veneto si direbbe “orba come un talpòn” (che era proprio ciò che mi ripetevano mie sorelle), ma cercavo disperatamente di non aggravare ulteriormente il mio senso di disagio e inadeguatezza indossando anche gli occhiali, che quando ero bambina erano di una bruttezza imbarazzante e avrebbero definitivamente sancito il mio status di “topo da biblioteca”.
Quindi mi barcamenavo alla bell’e meglio, sedendo in primo banco e, grazie all’aiuto della mitica Alfonsina Bressan, che andava malissimo in italiano, ma ci vedeva come un’aquila, me la cavavo nel copiare i compiti alla lavagna, grazie alle sue dettature sommesse e rapide, sussurrate quando la maestra ci dava le spalle.
In cambio Alfonsina aveva la prelazione sui temi di italiano che macinavo come una catena di montaggio.

Ma con l’orologio è un altro paio di maniche:
Alfonsina è pessima.
Ci vede dieci decimi, ma confonde le lancette e quindi – impotente a soccorrermi – assiste rattristata alla mia disfatta.
La maestra non si capacita e io mi sento una traditrice della sua fiducia.
Per fortuna nei giorni successivi la lettura dell’orologio diventa materia di interrogazione alla cattedra.
E’ la mia salvezza: a meno di un metro dal quadrante maledetto riesco a distinguere numeri e lancette e, con voce squillante e sicura, declamo gli orari che la maestra compone per verificare se sappiamo leggere l’ora.
Prendo il solito bel voto e mi aggiudico, come ulteriore gratifica, l’ambito premio supplementare di indicare con la bacchetta le nuove parole da leggere e imparare, scritte alla lavagna dalla maestra.
Ogni settimana viene designata un’alunna meritevole per questa mansione: lei indica le parole e le interrogate le devono leggere. Oltre ad assaporare il potere di impugnare la bacchetta dell’insegnante, si gode del privilegio di non essere interrogate.

Fu così che un brutto giorno si consumò per me la più vergognosa e disdicevole esperienza.

E’ quasi l’una e la maestra mi chiama alla lavagna per indicare le parole.
Mi porge la bacchetta e mi rendo conto, con orrore, che, sotto la gonna e il grembiule, qualcosa non va.
Mi scendono le mutande.
L’elastico infingardo ha scelto proprio quel momento di mia massima autorevolezza per cedere.
Incerta su come procedere, barcollo. Cerco di trattenere le mutande al di sopra degli indumenti, ma la presa non è delle più semplici. Nel frattempo devo alzare il braccio destro per tendere la bacchetta verso la lavagna.
Ho sette anni e sono piccola. A ogni estensione del braccio sento le mutande scivolare inesorabilmente.
Mi contorco: un colpo di bacchetta alla lavagna e una rapida strizzata al grembiule, al di sotto della vita, nel disperato tentativo di raggiungere e placcare le mutande al di sotto delle gonne. Devo sembrare un ginnasta contorsionista, ma nessuno ci fa caso, né la maestra (troppo occupata a rampognare chi commette errori) né le mie compagne, protese nello sforzo di compitare le lettere.
Nessuno bada a me.
Oggi mi fa persino ridere l’idea di come restassero ignare e impassibili mentre sotto i loro occhi si consumava la tragedia della frantumazione del mio personal branding. Ma forse se ne erano accorte e avevano scelto di far finta di nulla per non umiliarmi, in fondo ero la prima della classe e poi magari mi volevano anche un po’ di bene.
Chi l’ha detto che i bambini sono crudeli?

In qualche modo giungo alla fine dell’incarico e posso finalmente correre in bagno a sfilarmi le mutande e nasconderle in cartella: ho vinto, non sono cadute a terra, le ho tolte io.

Da quel giorno pretesi di indossare la rassicurante calzamaglia, che con il suo avvolgente abbraccio avrebbe arginato possibili crolli di lingerie e autostima.

Che sia così che si costruisce il proprio look?

© Photo by Noah Silliman on Unsplash

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