Gianrico Carofiglio a Ca’ Foscari, Venezia.
Il 2 aprile in un’aula di Ca’ Foscari (non gremita come mi sarei aspettata) Gianrico Carofiglio apre la serie di conversazioni sulla scrittura: “Le parole sono pistole cariche”.
Sin dai primi minuti vengo presa dal fascino di parole soppesate con cura e usate con delicatezza.
Riflessioni leggere su temi importanti: la metafora e il rischio di abusarne; la responsabilità dello scrittore; l’azione creativa del lettore; la fallacia celata nelle affermazioni categoriche.
La parola di Carofiglio scorre lieve e cattura l’attenzione.
Parla di cose note, di argomenti studiati e trattati negli anni: al liceo e all’università.
Lo fa con grazia e garbo, con misura e precisione.
Ottiene l’effetto sirena.
Lo ascolto concentrata, temendo di perdere o scordare piccoli frammenti che mi procurano il piacere del senso condiviso.
Il piacere non si descrive.
Si assapora.
Trascorrono due ore intense.
Al termine resta il gusto piccante delle provocazioni e delle sfide.
Per dire in maniera penetrante il concetto che si deve esprimere non serve consegnarlo agli avverbi, si possono usare le parole. Quelle necessarie. Non una di più, non una di meno.
Resta il gusto dolce e appetitoso degli anagrammi, pregni di significato e delle infinite combinazioni, in equilibrio sul senso, che le parole ci consentono. Carofiglio ci invita a giocare con la locuzione “la verità”. Anagrammata, cela in sé tre concetti di grande forza, producendo tre parole: “rivelata”, “relativa”, “evitarla”, che racchiudono fede religiosa, sistemi di pensiero, concezioni filosofiche.
Resta il gusto amarognolo delle regole da rispettare.
Evitare parole inutili, benché la durezza della regola della necessità cozzi contro il narcisismo dello scrittore. Chiunque di noi si cimenti nel pericoloso atto di scrivere sa quanto sia facile innamorarsi delle proprie idee, delle arguzie, degli aneddoti. L’innamoramento può togliere lucidità e impedire l’armonioso fluire di pensieri logici.
Carofiglio ricorre alla “cartella del maiale”, in cui archivia ciò che risulta ridondante, ma che costa eliminare. E da quella cartella “di cui non si butta via niente” (come del maiale di proverbiale memoria) potranno riemergere spunti e contenuti che troveranno più degna collocazione in altri contesti.
Resta il gusto acre del pericolo, sintetizzato dalla citazione di Margaret Atwood: “scrivere storie è come muoversi a tentoni in una stanza buia, cercando di arrivare dall’altra parte (…) negoziando con le ombre.”
Senza senso di pericolo non esiste scrittura che valga la pena di essere esplorata.
Scrivere ha una dimensione sociale e comporta responsabilità. Lo scrittore ha il dovere di esplicitare le premesse non espresse per non tradire il patto con il lettore.
Carofiglio racconta l’episodio di un bimbo di 2 anni che, guardando un cartone animato alla tv, vede un personaggio entrare in scena, andare al frigorifero, aprirlo, prendere del cibo, richiudere la porta, per poi scomparire dalla storia senza lasciare traccia e senza che la sua apparizione contenga un senso “necessario” allo svolgimento della narrazione.
Con grande efficacia comunicativa, il bimbo esprime così il suo disorientamento: “Orso non più … perché?”