Scrittura22 giugno 2018

Madeleine e vecchi merletti

Luoghi della memoria
#LaBellaStoria

Ricordo la casa con il salotto sempre in penombra, con le “rotolande” (la zia Bettina le persiane le chiamava così) abbassate, perché era la stanza dove non si entrava quasi mai e nemmeno ricordo da dove vi si accedesse, ma ho viva nella mente l’immagine dei divanetti con i piedini (in veneto “i pécoi”) a forma di zampette di leone e la tappezzeria a foglie verdi su fondo avorio, fissata da borchiette a testa lucida e tonda, su un gros grain di passamaneria verde bottiglia.

Sulle testiere delle poltrone frau di pelle marrone scuro la zia Bettina appoggiava i suoi centrini fatti a rete, dove orge di amorini grassi e veneri danzanti si contendevano cornucopie stracolme di frutti.

Per la zia Bettina i centrini di merletto a filet erano il segno di massima distinzione e raffinatezza, sopravvissute vestigia dei bei tempi andati e della nobiltà decaduta dei suoi avi.
L’aura luminosa dei Mazzocato aleggiava sui poggiatesta e sui centrotavola lavorati al tombolo, perché la zia Bettina ti sapeva raccontare le storie di famiglia con dovizia di particolari e ne faceva scaturire aneddoti succosi, come dalla madeleine di Proust.

Va detto che lei, grande narratrice, era molto più divertente di Proust, avendo a disposizione, negli scandali e nei segreti di famiglia, un ottimo materiale letterario.

© Photo by Emily Valletta on Unsplash

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Scrittura18 maggio 2018

Volti: una zia conturbante

La zia Bettina, detta zia Be, aveva una sua personale visione della moda e dell’eleganza.
I turbanti fissati con spilloni erano per lei il massimo dello chic, così come i colli di pelliccia, da fissare sui cappotti o i manicotti in agnellino persiano e i guanti… una signora non esce mai senza guanti: ne possedeva persino di pizzo bianco e avorio, da utilizzare d’estate.

Una zia conturbante

Da bambina ero affascinata dai suoi accessori, anche da quelli più trash, perché la zia Be coltivava un gusto eclettico, che la conduceva a esplorare gli accostamenti più surreali, ottenendone degli choc poetici stile Mirò.

Raccoglieva le sorprese dell’uovo di Pasqua per adornarsene.
Tanto le faceva indossare un foulard di seta che una reticella sintetica per i capelli. Alternava ninnoli di plastica e similoro, con spille d’argento e cammei in avorio, che lei chiamava “brelò”.
Ancora oggi l’etimologia di “brelò” mi risulta oscura, forse una contaminazione dal francese “broche” incrociato con il concetto di luccicore e brillantezza.

La cosa certa è che la zia Be aveva fantasia da vendere e la capacità meravigliosa di guardare il mondo con occhi bambini: ciò che riluceva per lei era oro.
Vedeva la bellezza oltre il valore, anche se ogni tanto sospirava, rammentando i gioielli di famiglia dilapidati da un padre giocatore compulsivo e mani buche, oppure dispersi dalla sorella maggiore, mia nonna Regina, che amava agghindarsi con gioielli veri per sfilare sul palco alle recite delle suore canossiane.

Secondo la zia Be gli ultimi preziosi resti dell’esiguo patrimonio Mazzocato erano stati persi così, danzando su una scena.
Io trovavo che fosse un modo esaltante di perdere un patrimonio e, quando la zia Be me lo raccontava, vedevo la nonna Regina vorticare al centro di un palcoscenico, con un’ampia gonna di tulle e falpalà, schizzando perle e pietre preziose in tutte le direzioni.
Un lussuoso vortice dispersivo che sprizzava luce e felicità.
Forse è per questo che non sono mai riuscita a dare valore all’oro e ai gioielli.
A me piace che siano vistosi, luccicanti, anche pacchiani, ma che si vedano da lontano. Come una gazza ladra adoro il bagliore e l’effetto scenico: un piccolo prezioso orecchino non compete con lo strass luccicante.

Potenza della genealogia.

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Scrittura20 aprile 2018

Nero come l’inchiostro

La scoperta della Scrittura
#LaBellaStoria

Prima di scrivere si legge.
A insegnarmi a leggere fu mia sorella Eta, in un meraviglioso giorno in cui la vita per me cambiò per sempre.
Fui io a chiederlo.
Andai da lei e le chiesi di scrivere una parola su un foglio, perché ero stanca di vedere che le persone guardavano per ore dei pezzi di carta con strani segni tracciati sopra. Mi avevano detto che quei segni erano le parole e allora avevo chiesto “scrivimi una parola”.

“SOLE” – aveva scritto la Eta.
“Leggi” – le avevo chiesto.
“Sole” – aveva letto.
Avevo preso il foglietto e avevo fatto il giro di tutta la famiglia. Con mia grande delizia tutti avevano pronunciato la stessa parola, o meglio lo stesso suono, ma allora non facevo differenza tra parola e fonema. Sentivo di stringere tra le mani qualcosa di prezioso, una chiave magica per mondi ignoti. Provai un brivido di piacere.

“Scrivimi un’altra parola”.

Da quel momento non avrei più dato pace a nessuno.
Sarei diventata avida, bulimica di parole, segni, scrittura e lettura in un crescendo parossistico che mi avrebbe portato a leggere qualunque scritta mi si fosse parata dinnanzi agli occhi, a compitare le etichette dell’acqua minerale a tavola, sbagliando gli accenti degli elementi chimici e sganasciandomi dalle risate nello scoprire che esisteva lo “stronzio”.
Avevo quattro anni.

Finalmente a sei anni andai in prima elementare e la mia prima maestra (e l’unica meritevole di essere ricordata), Erminia Durante, mi insegnò a scrivere.
Purtroppo l’amara sorpresa dei primi giorni di prima elementare fu che la maestra mise tutta la classe a fare le aste e gli esercizi di calligrafia.
Io smaniavo per scrivere parole intere, anche frasi, ma niente da fare: da ottobre fino a fine novembre furono pagine e pagine di aste, chiavi di sol, pallini, chiavi di fa, un’agonia.
Finalmente passammo a scrivere, con la matita, i primi pensierini, sotto ai quali si facevano disegni.
La matita non mi soddisfaceva, mi sembrava che tracciasse un tratto esile ed esitante; pigiavo per renderlo più visibile e mi si spuntava, la temperavo e pigiavo. La mina si spezzava.
Frustrazione.

Il giorno in cui ci fu concesso l’inchiostro provai finalmente l’ebbrezza di vergare il foglio con un tratto consistente.
I pennini erano infidi, ma erano oggetti delicati, raffinati, aggraziati e decorativi come piccoli gioielli.
L’importante era non “schincarli”, altrimenti la punta sottile si sarebbe aperta, graffiando la carta, impennandosi sul foglio, allagando il candore del quaderno con macchie scure.
A poco serviva la carta assorbente quando il danno era fatto: non restava che strappare la pagina dal quaderno, lasciando la ferita della lacerazione a eterno ricordo della sconfitta subita.

L’inchiostro aveva un odore inebriante.
La bidella lo versava da un bottiglione nei calamai collocati in mezzo ai banchi.
Bisognava fare attenzione a non raschiarne il fondo, perché vi si depositavano piccoli grumi, peluzzi di carta, che formavano strani agglomerati e, una volta ripescati, si spiaccicavano sul foglio con un rumorino liquido e maligno, distruggendo le lettere, annegando le parole, storpiando il senso della frase in una macchia nera.

L’inchiostro delle elementari era nero.
Nero come il grembiule della maestra e della bidella, come la lavagna, come le copertine dei quaderni dai fogli coi bordi rossi; nero come un gatto nero che porta sfiga si dice, ma non ci ho mai creduto; nero come la pece si dice, ma io la pece da bambina non l’avevo mai vista; nero come i corvi, quelli sì che qualche volta li vedevo e li sentivo gracchiare; nero come il carbone, quello lo si vedeva il giorno della befana, ma di solito era carbone dolce.
Insomma era nero.
Nero come l’inchiostro.
Così si dice.

© Photo by Kelly Sikkema on Unsplash

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Scrittura16 marzo 2018

La casa di Dracula

Esiste ancora. E’ ad Asolo.
Ora so che fa parte del Convento degli Armeni, ma quando avevo 17 anni, per me e per i miei amici era la “Casa di Dracula”.

Asolo convento Padri Armeni

Grigia, incorniciata da due alti cipressi, completamente addossata alla collina: era chiusa e abbandonata.
Noi scavalcavamo la recinzione di notte, aprivamo un’imposta già scardinata ed entravamo con le torce per farci le canne in santa pace.

Dal piano terra della villa partiva un tunnel che portava dall’altra parte della collina.
Scavato sotto terra, sbucava nelle cantine del Convento dei Padri Armeni Mechitaristi, all’epoca disabitato. Ci spingevamo fin dove era possibile arrivare e poi si tornava di là, tremanti di eccitazione per aver provato il brivido del proibito.

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Scrittura21 febbraio 2018

LA BELLA STORIA ce l’abbiamo dentro

Ovvero come trasformare una cozza in un cuore.

Come si racconta la propria #BellaStoria ?
Ci sono tanti modi.

Si può ripercorrere la strada nota della propria vita
per scoprire che magari ci sono pezzetti importanti per noi
che abbiamo lasciato indietro e che ci fa piacere recuperare:
pacchi regalo natalizi da scartare, prati verdi e taxi gialli.
Luci e ombre che si avvicendano.

E’ bello provare il sottile piacere di indugiare su oggetti, pensieri, persone,
che simbolicamente rappresentano ciò a cui siamo legati
in modo intimo e struggente, per poi farsi delle belle risate
sulle menate con cui ci complichiamo la vita
e lanciarsi in nuovi scenari con immagini ardite,
usando le parole come paracadute colorati.

“LA BELLA STORIA” e il nòcciolo segreto
Chiamo #BellaStoria quella parte così privata di ciascuno di noi,
che gli altri non possono conoscere, a meno che non decidiamo
di condividerla.

Nella Bella Storia sono racchiusi i ricordi giganteschi di immagini
quotidiane, che i nostri occhi piccini spalancati sul mondo registravano
con metriche relative e personali.
La Bella Storia contiene sogni, desideri, emozioni irragionevoli e collerici capricci,
attraverso i quali ci siamo misurati con un mondo
che ha cercato di piegarci alle sue regole.
Qualche volta ne siamo usciti vittoriosi.
Qualche volta con le ossa rotte.
Entrambi gli scenari sono interessanti.
Entrambi appartengono solo a noi.

La scrittura fonde gli elementi che compongono la nostra
identità in un crogiuolo in cui si amalgamano per generare
la visione di nuove strade.

UTILE E’ BELLO.
A cosa serve scrivere “LA BELLA STORIA”?
Serve a intenerirsi sugli affetti e a inorgoglirsi per i successi
e la capacità di tornare in piedi dopo le cadute.

Serve a presentarsi magicamente, chiamando a raccolta tutti i talenti,
le risorse interne, le capacità innate e le competenze apprese
.

Serve a dirsi “sono proprio bravo a svolgere questo compito”
e a comprendere “chi sono e cosa voglio veramente fare della mia vita”.

Serve a trovare nuove parole, fresche e vivaci,
con cui dipingere di passione i propri progetti.

Basta raccontare, adesso si narra.

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